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Archeologia industriale - Fabbriche - Pellicola - Analogico - Fotografia - Arte

 

Lidia Giusto (1984) fotografa utilizzando come mezzo di espressione un obiettivo, puntato sui chiaro scuri, sui pieni e sui vuoti, sulle forme e sugli spazi. 
Dedita alla fotografia dell’archeologia urbana e dell’industriale abbandonato, che la portano anche a viaggiare in Italia e all'estero, Lidia incentra la sua ricerca sulla contrapposizione tra la presenza e l’assenza, che traduce poi in un bianco e nero ad alta densità. Dove l’ombra è intesa come assenza di luce e la luce come assenza di ombra, come tempo trascorso, ma mai perduto, immortalato in quell'attimo in cui una linea netta traccia il confine tra il chiaro e lo scuro oppure si scioglie, laddove assenza e presenza si confondono. Un dogma di vita, insomma, che si traduce in immagini pulite, intense, assolute. Dice di sé: “La macchina fotografica è il prolungamento della mia mente, l’estensione del pensiero e dell’interiorità, che passando attraverso un obiettivo diventa inquadratura ed immagine” Inizia a fotografare da piccola con una Nikon F2, avvicinandosi in età adolescenziale al tema degli abbandoni industriali e civili. Ha partecipato ed esposto a numerose mostre e concorsi, personali e collettive, in Italia e all'estero.

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“Lidia Giusto: la camera oscura della mente”
In quel nodo di chiaroscurità risiede la fotografia di Lidia Giusto, questa giovane e promettente artista genovese, mai soddisfatta e paga di raccontare il bianco e nero della vita col bianco e nero delle sue emozioni, utilizza le cesoie della luce sforbiciando inquadrature e operando tagli che strappano al bianco ciò che è del nero e sottraggono al nero ciò che è del bianco, in un alternarsi continuo di nuove realtà che ci appaiono come luoghi impervi e inaccessibili solo per chi non possieda la capacità d’immaginarli e di abitarli. In Lidia la luce, venendo in collisione con le cose e gli oggetti, provoca con essi un forte impatto emotivo, disgregandone le consuete forme della bellezza, lasciandone intatta tutta la sostanza poetica e malinconica. Se è vero che le idee prima ancora d’essere pensieri, sono visioni, in Lidia ciò che resterà impresso nel lampo di quella visione, non sarà solo l’immagine, bensì l’idea e il pensiero che l’hanno determinate. Osservando le foto della Giusto, viene da chiedersi da quale remota regione dell’interiorità vengano fino a noi quelle immagini indelebili come sogni e che del reale non possiedono ormai più che l’intensità e il dolore dell’abbandono, quel terribile e illuminante sentire che ogni abbandono reca con sé. E di sicuro possiamo evincere che ogni opera di Lidia Giusto provenga, prima ancora che dall’obiettivo, dalla camera oscura della sua mente e che solo un attimo dopo si fissi nelle abbacinanti trame della sua stessa intima oscurità. Pensiero nero e argento, punteggiato qua e là da qualche luminosissimo riverbero che rende la possibilità di ogni sua visione, sfaccettata come la superficie di un diamante. Un diamante sul Nulla, il memento mori della vita. Ogni cosa vissuta ne richiama un’altra immaginata, ogni cosa immaginata ne ricama una vissuta. Basta entrare nelle fotografie di Lidia Giusto.
Maria Rita Montagnani, Critica d'Arte 

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The Dark Room of My Mind

Stairs, roofs, shadows all desperately in pursuit of an escaping light—an exploration of abandoned spaces and the suffocating mystery therein.

In black and white pictures, contrast is one of the most powerful instruments at the artist’s disposal—a skilled practitioner has in her hands the very substance that is the mystery of light. This quality is wonderfully captured by the young photographer Lidia Giusto. In this series, she uses light to convey the haunting feeling that our human presence leaves but a feeble signal after itself, and architecture is nothing but a strange attempt through which to resist this void. The Dark Room of My Mind contains shots taken from 2000 to 2020. It explores the appearance of places deprived of life and deals with the silent and suffocating mystery of forgotten buildings. “To me,” Giusto said, “my photographs are like industrial and urban archaeology, research of traces of what once existed, and still exists today.” At first sight, these gloomy rooms, rusted beds and endless corridors give the suggestion of horror; but steadily, they reveal themselves to be more than that. Giusto’s ability of finding meaningful details—a piece of glass, some steep stairs, a small reflection—is fundamental to bringing out a more subtle feelings of loneliness and isolation rather than a blunt fear. On closer inspection, Giusto’s lines are always oblique. Her stairs, roofs, shadows seem to desperately pursue an escaping light. A giant tree of pipes, made useless and empty, is a monument to oblivion. But the chief quality of Giusto’s shots, drawn out in her spiritual dark room (photographic, in this case), can be found beyond the places themselves: “Sometimes beauty lies in the decay itself…A growing passion in me is to try to photograph objects suspended above space and time.” In short, her pictures bring to light a melancholy we have likely experienced in many places and situations. We sense this feeling of abandonment, in neglected rooms and forgotten corners—but in the urban chaos of Western life, we would just as soon pass them by without a second glance…

Critic text by Dario Carere.

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